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“Il telaio è il telaio”. Perché la digitalizzazione rinnova i processi, ma lo strumento chiave del ricamo resta quello di un tempo. Questo mix di tradizione e innovazione è il marchio di fabbrica di Rilievi, protagonista di CNA Storie di agosto. Azienda bolognese, nata dal coraggio e dall’intraprendenza di otto ricamatrici, allora ventenni, che nel ’91 fecero il grande passo. I ricami restano il core dell’attività dell’azienda, che in questi trent’anni ha ampliato produzioni e servizi e vanta, nel proprio portfolio, nomi come Fendi, Armani, Gucci, D&G, Versace, Moncler… Conta oltre 150 dipendenti, tra Italia, India e Stati Uniti.

Il telaio è il telaio

Michele Galliano, 52 anni, è managing director e ci racconta la storia di Rilievi.

Tutto nasce come e quando?

Nel 1991. Un anno e mezzo prima le otto fondatrici avevano preso parte a un master per l’alta moda italiana organizzato da CNA Emilia Romagna. Era focalizzato sulle tecniche di ricamo, ma forniva anche degli strumenti concreti per chi volesse intraprendere un’attività. Le fondatrici, divenute ricamatrici, iniziarono a fare la spola tra il loro piccolo laboratorio e l’atelier di Gianfranco Ferrè, che presto si accorse di loro, e proprio a loro affidò i primi lavori. Da lì allargarono il loro orizzonte all’area milanese, al mondo di Versace, di D&G, di Armani…

Quale fu allora il punto di forza per emergere dal piccolo laboratorio e arrivare fino a nomi così importanti?

L’educazione al lavoro e l’attenzione al dettaglio: questo è stato l’imprinting. Sin dal principio ci si è trovati dover fare i conti con una differenziazione della produzione. Ed è allora che sbarcammo in India dove riuscimmo a mettere in piedi un sistema solido e a individuare forniture con partner selezionati che ci garantivano gli stessi standard di qualità. Ma quando nel 2004 incontrai Simona, una delle fondatrici che poi sarebbe diventata mia moglie, mi parlò delle difficoltà organizzative che stavano avendo per la crescita dimensionale e mi resi conto che erano carenti di strumenti strategici e organizzativi. Decisi allora di dare il mio contributo come consulente. Avevo avuto occasione di lavorare con diverse aziende della moda; conoscevo le dinamiche di costruzione delle collezioni. Nel 2013 entrai nel capitale della società. 

L’educazione al lavoro e l’attenzione al dettaglio: questo è stato l’imprinting.

Quanto ha inciso la scelta di portare all’estero la produzione sulle strategie aziendali?

A fronte della crescita dei volumi scegliemmo di differenziare la produzione: non più solo ricami, ma realizzazione del prodotto finito. In azienda entrarono modelliste, figure specializzate nell’approvvigionamento dei tessuti e così via. Integrammo insomma una parte di processo, che prima era gestito direttamene dal cliente.

Fu una scelta vincente?

Avevamo trovato un buon equilibrio tra i due tipi di attività, ma poi arrivò la crisi. In CNA ci fu un focus group e in quell’occasione il prof. Stefano Micelli ci parlò del concetto di “artigiano globale”. Capimmo che la polarizzazione del mercato che avevamo conosciuto fino a quel momento non esisteva più. Era prioritario rafforzare la nostra presenza diretta in India e creammo una filiera tutta interna. Risale ad allora l’avvio del percorso per ottenere la certificazione SA 8000 (primo standard etico certificabile per la valorizzazione del patrimonio umano ndr).

Qual era il vostro progetto globale?

Un controllo diretto della filiera, l’aggiunta dei servizi che non fosse solo la pura esecuzione del ricamo e la necessità di creare una contiguità geografica: eravamo partiti dall’Italia per arrivare in India, e poi ancora a New York dove creammo una filiale commerciale. Oggi ci sono più opportunità di prima, ma per coglierle servono notevoli risorse finanziarie e organizzative e capacità di relazioni all’altezza dei nostri interlocutori. L’artigiano globale lavora a 360° per creare servizi a valore aggiunto che includono la logistica, le certificazioni, la compliance…

Qual è il linguaggio universale di questo artigiano globale?

Le mani. Noi trasferiamo in tutto il mondo il nostro laboratorio: quando ci sono le sfilate portiamo negli atelier le ricamatrici. Lì interagiscono con designer, modelliste, sarte e diverse altre figure che vengono da tanti paesi: è un melting pot interessante. È in contesti così che nasce questo linguaggio universale.

Voi avete la grande responsabilità di salvare un mestiere in via d’estinzione. Lavorazioni come il tombolo, oggi, rischiano di sparire…

Noi diciamo ai giovani che questo mestiere apre mille strade e può dare grandi gratificazioni. È un settore molto dinamico perché la tecnologia va al passo con la tradizione e permette di girare il mondo. Nelle mani delle ricamatrici e dei ricamatori c’è una grande responsabilità di realizzazione e un alto grado di personalizzazione.

Cosa vuol dire raggiungere il traguardo?

Reinventarsi, mediamente, ogni 5-6 anni. Se hai fatto le cose bene, rilanci la palla avanti quando la parabola sta per declinare. Per farlo serve una grande conoscenza del mercato e una straordinaria capacità di lettura visione. Serve saper interpretare le visioni dei guru della strategia mondiale per analizzare i megatrend e saperli calare nella realtà. Insomma: serve crearsi la propria versione di futuro. E su quella lavorare. Non senza mille difficoltà. Senza sosta.