In parallelo alla grande trasformazione che ha investito e sta investendo il sistema produttivo qualcosa del genere è avvenuto nel campo della comunicazione. La centralità della televisione ha ceduto il passo alla dittatura dello smartphone e questo slittamento interessa tutti gli ambiti della vita sociale, incluso ovviamente il mondo dell’associazionismo.

Prima ancora che la disintermediazione politica, c’è stata infatti una rottura profonda degli schemi della formazione e dell’esternazione delle opinioni. Una volta il processo era sostanzialmente pedagogico, guidato dall’alto e orientato a formare e indirizzare il proprio popolo. Oggi le stesse persone, prima ancora che l’associazione le abbia raggiunte, hanno avuto modo di dire la loro in svariate maniere e avranno avuto la possibilità di interagire con un universo di figure che vanno dai leader politici agli opinion maker più accreditati. E’ uno spettacolare rovesciamento dell’azione, per di più a costo pari a zero di soldi e tempo. Il tallone d’Achille di questa metamorfosi della comunicazione, e della conseguente possibilità di tutti di diventare fotografi, opinionisti, vignettisti e quant’altro vogliate, risiede nella fragilità del contenuto, nel suo presentismo.

Non mi viene altro paragone se non quello della comunicazione che una volta si verificava nei bar. Veloce, incisiva, spesso corrosiva. Capace nel medio periodo di creare addirittura delle figure di riferimento, quelli che sono stati chiamati “i leader del bar”, le persone più ascoltate o spesso solo temute. Aggiungete che poi per effetto di uno spirito del tempo decisamente incattivito si è accentuato il carattere “contro”. Una volta nei bar i brontoloni seriali venivano chiamati con un tocco di leggera ironia “i Bartali”, oggi sono diventati degli odiatori seriali.

Che possono fare le organizzazioni di fronte a queste trasformazioni presentiste?
Devono sicuramente porre maggiore attenzione alle dinamiche della comunicazione, ma anche sapere come riempirla. Non si devono far abbagliare dalle modalità ma concentrarsi sui contenuti. E allora non possono che ripartire dal “senso” della loro azione che nel tempo si è stemperato, è stato assorbito dai riti quotidiani e umiliato da qualche sciatteria di troppo. Persino nel linguaggio impoverito del business si sente ripetere spessissimo la parola “mission” per indicare gli obiettivi della propria azione e noi non possiamo non tradurlo nella maniera più nobile.

Rappresentanza è missione. E a questo rinnovato impegno dobbiamo abbinare i giusti contenuti e la tempistica più opportuna. Facciamo presto e comunque prima che a qualche Casaleggio di turno venga in mente di sostituire le associazioni con un algoritmo