A norma dell’art. 2103 c.c. “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.” La disciplina sul trasferimento, pertanto, fissa dei limiti al potere del datore di lavoro di stabilire il luogo della prestazione di lavoro, richiedendo, a pena di nullità, un onere di giustificazione.

Sul punto è intervenuto la Cassazione civile, sezione Lavoro, con la sentenza 10 gennaio 2019, n.434, la quale ha precisato che in tema di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa.

Il contratto di lavoro, infatti, rientra tra i contratti a prestazioni corrispettive o “sinallagmatici”, per i quali trova applicazione l’art. 1460, comma 2, c.c., che consente alla parte adempiente di rifiutare di eseguire la prestazione posta a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario a buona fede.

Nel caso di specie, la lavoratrice, dopo un licenziamento intimato nel 2012, era stata reintegrata nel 2015 in un ufficio diverso, per  ragioni organizzative, ma, secondo la dipendente, tale trasferimento non era stato adeguatamente giustificato.

La Corte di Cassazione in primo luogo richiama l’orientamento generale ai sensi del quale l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emanato dal giudice esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel luogo e nelle mansioni originarie, salva la facoltà per il datore di lavoro di disporne con successivo provvedimento il trasferimento ad altra unità produttiva, laddove ne ricorrano le condizioni tecniche, organizzative e produttive.

Tuttavia, ribadisce la Corte, il trasferimento non adeguatamente giustificato non legittima automaticamente il rifiuto del lavoratore e, quindi, la sospensione della prestazione lavorativa: al contrario, nei rapporti di scambio, è necessario che la reazione della lavoratrice sia proporzionata all’inadempimento del datore di lavoro. Pertanto,  il rifiuto di riassumere il servizio presso la diversa sede di lavoro assegnata deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.

Pertanto la Corte, accogliendo il ricorso del datore di lavoro,  rinvia il caso alla Corte di Appello di Roma affinché venga accertato in concreto se l’assenza di giustificazione del datore di lavoro era talmente grave da giustificare l’eccezione di inadempimento della dipendente, con un comportamento da ritenersi proporzionato e conforme a buona fede e correttezza.