L’inflazione fa meno paura degli anni ’70 ma serve più Europa per affrontare la crisi.

Prezzi energetici alle stelle e il ritorno dello spettro dell’inflazione, nuove esigenze causate dalla guerra in Ucraina, timori sulla ripresa economica e ruolo delle piccole imprese. Temi di estrema attualità sui quali CNA ne ha parlato con Sergio De Nardis, uno dei più autorevoli economisti italiani.

Domanda – I prezzi record dell’energia hanno infiammato l’inflazione. Stiamo tornando al clima provocato dallo shock petrolifero degli anni ’70, oppure oggi disponiamo di anticorpi efficaci?

De Nardis – Ci sono tre elementi che ci fanno dire che oggi siamo meno vulnerabili rispetto a una profonda crisi energetica. Il primo è la sensibile riduzione dei consumi energetici. Rispetto agli anni ’70, oggi il consumo di petrolio per unità di Pil è inferiore del 75% e quello di gas del 70%. Il secondo elemento è che allora esisteva il meccanismo della indicizzazione dei salari per cui i rincari energetici si propagavano automaticamente su prezzi e redditi. Oggi invece, guardando all’Italia, c’è un sistema che espressamente non prevede gli aumenti diretti dei prezzi energetici. Naturalmente bisognerà vedere se tale sistema avrà capacità di tenuta. Infine altra grande differenza è che oggi le politiche monetarie sono molto più credibili del passato. L’impostazione diffusa delle banche centrali è di ancorare la politica monetaria alle aspettative inflazionistiche. Ciò detto la situazione è comunque rischiosa anche perché si calcola da molto tempo l’impatto del prezzo del petrolio sul ciclo economico mentre non è mai stata misurata l’incidenza del gas.

L’Italia e altri paesi europei stanno erogando sussidi per contenere gli effetti del caro-energia. I sussidi però non modificano i comportamenti della domanda e dell’offerta. Tale orientamento può scongiurare una recessione economica?

Si tratta di interventi per cercare di difendere la crescita economica, al tempo stesso si fa un regalo alla Russia neutralizzando in parte le pesanti sanzioni introdotte. C’è una evidente contraddizione di obiettivi tra danneggiare la Russia e salvaguardare le economie. Per colpire economicamente la Russia si dovrebbe ridurre la domanda di petrolio e gas ma è una strada economicamente e socialmente difficile per Paesi che hanno vissuto la recessione provocata dalla pandemia e due crisi precedenti in pochi anni.

Già prima del conflitto in Ucraina era partito il dibattito sulla necessità di rallentare la transizione green. La crisi invece sembra indicarci l’esigenza non tanto di ridurre gli approvvigionamenti dalla Russia quanto ridurre la dipendenza del gas in assoluto.

L’Italia è l’esempio tipico della forte dipendenza dal gas russo per produrre energia elettrica. La Commissione Europea recentemente ha varato il piano RePower Eu per realizzare uno sganciamento dal gas della Russia che mi sembra poco realistico e che presenta evidenti limiti come risposta per l’immediato. Nel medio termine è evidente che si deve accelerare sulle rinnovabili e intervenire sulla semplificazione regolatoria

Alla crisi provocata dalla pandemia l’Europa ha risposto con il next Generation EU. Come valuta alcune proposte di realizzare un nuovo programma comunitario dedicato all’energia?

E’ una strada opportuna. La transizione energetica è già presente nel Next Generation EU ma c’è la nuova esigenza di procedere a un rapido, per quanto possibile, sganciamento dal gas russo. Ritengo che sarebbe riduttivo un piano europeo solo per l’energia. Stanno emergendo orientamenti e necessità di tipo europeo. Penso alle spese per la difesa oppure alle risorse necessarie per la gestione dei profughi ucraini. Un Next Generation EU 2 rappresenta quindi una necessità in quanto stiamo parlando di beni pubblici comunitari. Inoltre ogni decisione su questi asset da parte dei singoli paesi ha effetti e ripercussioni sugli altri. E’ prevedibile l’opposizione dei cosiddetti paesi frugali, ma la Germania è molto esposta in questa crisi e insieme a Italia e Francia possono costituire un blocco per favorire una visione comune dell’Europa.

Le piccole imprese durante la pandemia hanno dimostrato capacità di reazione forse insospettate. Sono un patrimonio del sistema produttivo oppure un freno allo sviluppo come sostengono alcuni?

Ritengo sia sbagliato affrontare temi importanti con gli slogan. Se guardiamo i numeri le imprese italiane di ogni dimensione sono entrate nella crisi pandemica in condizioni decisamente migliori rispetto alla crisi finanziaria del 2008 e quella del debito sovrano del 2011. Ci sono state ristrutturazioni, miglioramenti finanziari e produttivi in qualsiasi classe dimensionale di impresa. C’è un altro elemento per quanto riguarda micro e piccole imprese che presentano storicamente una minore produttività rispetto, ad esempio, a quelle tedesche. Da alcuni anni questo sbilanciamento si sta attenuando, si sta registrando un deciso miglioramento da parte delle nostre imprese.