I “cervelli” italiani? Non sono tutti disoccupati, anzi, nella maggior parte dei casi svolgono un lavoro consono al loro livello di istruzione. E non sono nemmeno tutti “in fuga”. Anche se lo stipendio poco competitivo rispetto ai colleghi stranieri e la bassa sicurezza del posto di lavoro li rendono incerti e continuamente tentati di andarsene. A sfatare alcuni luoghi comuni sui nostri giovani più brillanti e preparati, in questo caso giovani che dopo la laurea hanno conseguito il dottorato di ricerca, è un’elaborazione del Centro Studi CNA su dati Istat relativi al 2014.

Dallo studio emerge che non è vero che i dottori di ricerca sono condannati alla disoccupazione se restano in Italia. Tutt’altro: a quattro anni dal conseguimento del titolo, il 91,5% di loro lavora. Di questi, solo il 12,5% si è trasferito all’estero in maniera permanente.

Oltre a garantire alti tassi di occupazione, il dottorato permette di accedere a posizioni professionali adeguate. L’87% dei dottorati dichiara di svolgere un’attività consona con la propria preparazione e il 74,4% ha la possibilità di svolgere attività di ricerca e sviluppo in modo prevalente o solo in parte.

Vorrebbero continuare a lavorare in Italia. Tra i dottori di ricerca residenti in Italia, il 55,4% dichiara infatti di non avere intenzione di lasciare il paese nei 12 mesi successivi. Solo l’8,2% ha intenzione di farlo. È invece molto ampia la quota di coloro che sono incerti circa il loro futuro (il 36,3%).

L’insoddisfazione per gli sbocchi professionali è legata principalmente a due fattori: il trattamento economico inadeguato e poco competitivo rispetto a quello ottenibile all’estero (a quattro anni dal conseguimento del titolo il reddito medio mensile di un dottorato è di 1.633 euro, 830 in meno rispetto a chi lavora all’estero) e la bassa sicurezza del posto di lavoro. Solo il 32% dei dottorati che hanno conseguito il titolo nel 2010 ha un contratto a tempo indeterminato (tale quota è al 42,4% per i dottorati nel 2008).

Per stabilizzare l’occupazione il Jobs Act rappresenta finalmente una risposta positiva. Le iniziative finora intraprese non avevano sortito effetti soddisfacenti per favorire un’alta occupazione qualificata nelle PMI. Un esempio è il credito di imposta del 35% a favore delle imprese che assumevano a tempo indeterminato dottori di ricerca e laureati in discipline tecniche e scientifiche introdotto nel 2012. La norma, di per sé apprezzabile, ha avuto vita breve risultando abrogata con la Legge di Stabilità 2015.

Nel 2013 il “Decreto del fare” aveva introdotto una norma (art. 57) diretta al sostegno e allo sviluppo delle attività di ricerca che il MIUR avrebbe dovuto attuare mediante la concessione di contributi alla spesa attingendo al Fondo per le agevolazioni alla ricerca (FAR). Tra gli obiettivi dell’intervento figurano sia il potenziamento del rapporto tra mondo della ricerca pubblica e imprese che il sostegno agli investimenti in ricerca delle PMI. La norma è ancora in attesa di un decreto di attuazione.

Il fallimento di queste iniziative è particolarmente grave anche perché il numero di assunzioni dei laureati nelle imprese più piccole è estremamente ridotto (2,9% sul totale nel 2014) e non è aumentato negli anni della crisi.

La CNA è convinta che l’inserimento di manodopera altamente qualificata nelle piccole imprese sia una misura in grado di accrescere la produttività in maniera molto significativa, contribuendo così a riportare l’Italia in un sentiero di crescita sostenuta. Per questo propone l’introduzione di un “super bonus” che, da un lato,  permetta di inserire un laureato in ogni piccola impresa in maniera poco costosa e, dall’altro, renda la piccola impresa una meta lavorativa attraente per i giovani laureati.