Petrini a "L'Italia che va": come esaltare il nostro agroalimentare

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Da oggi ripartiamo, insieme, con il primo racconto di CNA Storie. Ogni mese trasmetteremo speranze, visioni e progetti di imprenditrici e imprenditori veri, che parlano a donne e uomini come loro. Che hanno da raccontare storie di straordinaria normalità, ispirate alla tradizione che incontra innovazione e attenzione all’ambiente. Diamo voce ai protagonisti di queste imprese coraggiose perché con la loro speranza e caparbietà sono il più grande trampolino di lancio verso la ripartenza; a cura di Paola Toscani 

È lungo il palmarès di Francesca Petrini, titolare con il fratello Cristiano della Fattoria Petrini, azienda agricola in provincia di Ancona specializzata nella produzione di olio extravergine d’oliva. Nel 2014 arriva per Francesca il Premio ITWIIN come migliore inventrice 2014, mentre l’estate scorsa i pregiati oli evi biologici sono stati premiati dalla Guida The WineHunter Award. L’ultimo, in ordine di tempo, la presentazione dell’azienda come best practice nell’evento romano di avvicinamento al pre-vertice ONU sui Sistemi Alimentari, che si tiene in questi giorni  Roma.

Francesca Petrini, la dieta mediterranea è candidata al podio dei migliori sistemi alimentari al mondo. Dopo le minacce di etichettare olio evo e Parmigiano con immagini choc come quelle delle sigarette e tassarli come fossero cibo spazzatura, un riconoscimento così ci voleva…

Sicuramente è una bella risposta. Andiamo verso la definizione della dieta universale, ovvero del miglior sistema alimentare, da un punto di vista nutrizionale e della sostenibilità: di questo si è discusso in sede Onu al pre-vertice sui Sistemi Alimentari e si discuterà a settembre al Food Systems Summit 2021. La dieta mediterranea è tra i modelli alimentari favoriti: equilibrata, sostenibile e ricca di ingredienti di qualità.

Nei primi anni Novanta siete stati dei pionieri del biologico, quando ancora era circondato da pregiudizi. Come avete fatto a superarli?

Semplicemente credendo nella combinazione tra vocazione ambientale e saper fare. Le nostre olive sono sane, perché non trattate con pesticidi e fitofarmaci, che inaridiscono i terreni. Non abbiamo inventato nulla: nelle Marche il metodo di coltivazione biologico è disciplinato sin dal 1978, ma quando siamo partiti eravamo visti come degli alieni. Tutto il mondo agricolo tradizionale era contro di noi.

Perché vi criticavano?

Il biologico veniva percepito come sovversivo, contrario alle verità scientifiche e al progresso. Oltre che antieconomico. Mettici poi che il consumatore di allora non solo non era preparato, ma persino ostile verso un prodotto che percepiva -incredibile a dirsi oggi- come insalubre. Insomma, il biologico allora sembrava lo sfizio di un gruppo di fissati. Un’ideologia. Abbiamo dovuto costruire da zero un mercato, a suon di investimenti; lottare contro un rifiuto commerciale dietro l’altro. Sono stati anni di grande fatica.

Abbiamo dovuto costruire da zero un mercato

La sostenibilità ispira da sempre la vostra attività di oggi. E domani?

La sostenibilità è una questione di giustizia fra generazioni: ciò che consumo oggi non deve compromettere quello di cui può godere chi verrà dopo. Insomma: tutti abbiamo il dovere di non esaurire quello che sappiamo di non poter rigenerare. È giusto che ogni generazione soddisfi i propri bisogni, ma senza impedire alle successive di fare altrettanto. E visto che l’agricoltura incide moltissimo sul consumo di risorse del pianeta, dobbiamo far sì che sia sempre più attiva nel sequestro di carbonio e meno nell’emissione.

E cosa rispondete oggi a chi all’inizio sosteneva che il biologico fosse antieconomico?

Che seguire modelli sostenibili è una strada assolutamente redditizia, al netto di tutti gli sforzi, inevitabili, a carico di chi fa da apripista. Basti guardare a quanto è cresciuto l’agroalimentare, secondo settore manifatturiero dopo la meccanica, che pesa per il 15% del Pil. In questo sistema, il biologico cresce a due cifre: basta per convincere gli scettici che è la strada giusta per il loro business, oltre che per l’ambiente?

È insomma lo stesso concetto di commodities ad assumere un valore diverso…

Sì. Questo è un mondo in cui il valore del prodotto non è più solo quello intrinseco, tantomeno del lavoro e  degli investimenti, ma è una somma di tutte queste cose e di come è guidato il processo. A partire dalla gestione etica della manodopera.

Anche gli scarti possono avere una nuova vita, tanto che si parla di materia prima seconda. È giusto scommettere oggi sull’economia circolare?

Ne siamo convinti. Noi, nel nostro piccolo, siamo un esempio di economia a circuito chiuso: non produciamo rifiuti da trent’anni. Dall’ulivo prendiamo le olive, che lavoriamo. L’oliva a sua volta è fatta di olio, acqua e osso. Acqua e osso diventano poi materia prima seconda, che utilizziamo come concime e compost. Le regole del metodo biologico non ci impedirebbero di acquistare prodotti belli e pronti per concimare. Sarebbe più semplice forse, ma preferiamo utilizzare i nostri scarti che contengono sostanze organiche preziose per i nostri terreni.

Nella nostra azienda non produciamo rifiuti da trent’anni

Dove andrebbero a finire, altrimenti, questi scarti?

La sansa dell’oliva andrebbe ceduta ai sansifici per poi ottenere oli di sansa, attraverso complessi processi chimici. Stesso discorso per le acque di vegetazione, cedute a ditte che si occupano del loro ritiro e smaltimento. Non senza un aggravio di costi.

Come far conoscere il valore del vostro lavoro, per rendere i consumatori più consapevoli?

Utilizzare l’esperienza come processo per arrivare alla verità è stato un mezzo potente. Nel turismo esperienziale crediamo da trent’anni e, insieme alle istituzioni locali, abbiamo avviato il progetto Homo Faber sul turismo esperienziale. Un anello di raccordo tra il consumatore, il turista – diciamo il fruitore in generale-  e la bottega, il laboratorio, il frantoio… Per far incontrare e conoscere il mondo ricchissimo della tradizione artistica dell’artigianato, dei centri di restauro, della manutenzione del patrimonio culturale e dell’agroalimentare.

Cosa fanno i turisti/consumatori nella Fattoria Petrini?

Facciamo conoscere e riconoscere l’olio buono da quello di bassa qualità, derivante da processi incerti. Nella nostra azienda il turista rivive il nostro saper fare e la nostra esperienza. Da quando abbiamo fatto questa scelta, il nostro fatturato è raddoppiato. Ci sembra questo il modo migliore di fidelizzare il consumatore: far conoscere da zero quello che portano in tavola…

…che arriva direttamente dal frantoio di famiglia…

La sostenibilità è una questione di giustizia fra generazioni. Tutti abbiamo il dovere di non esaurire quello che sappiamo di non poter rigenerare

Il frantoio non c’era ancora quando, negli anni ’60, per nonno Imolo, gli ulivi erano nient’altro che un hobby. Fino a quando ero ancora una bambina, infatti, vivevamo in città, dove mio padre dirigeva una grande industria di pavimenti in gomma. Per lui lavoravano 120 dipendenti e la sua attività fatturava 13-14 miliardi di lire l’anno. A fine anni ’80, il medico gli disse: “o cambi vita, oppure la vita cambierà te”. Mio padre fece la sua scelta, e ci trasferimmo dalla città alla campagna. Nel 1990 arrivò il nostro frantoio; oggi produciamo ogni anno 400 quintali di olio. I duemila ulivi di mio nonno sono diventati 10mila. Da quelle piante nasce la nostra storia: una scelta di salute e responsabilità, verso se stessi e per le generazioni future.