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Burocrazia senza freni: il consumo di cibo e bevande dall’artigiano deve essere scomodo

Burocrazia senza freni: il consumo di cibo e bevande dall’artigiano deve essere scomodo

Burocrazia senza freni: il consumo di cibo e bevande dall’artigiano deve essere scomodo

La burocrazia rappresenta un Monte Bianco da scalare per chi fa impresa. Ma se sei un artigiano la vetta da conquistare è l’Everest. Il risultato è penalizzare uno dei simboli del Made in Italy: le eccellenze artigiane del settore agroalimentare, una delle rare realtà che continua a crescere a dispetto della stagnazione dei consumi. Gli italiani spendono in un anno 85 miliardi di euro per mangiare fuori casa, circa 1.500 euro pro capite secondo l’indagine condotta da CNA Agroalimentare e CNA Turismo e commercio. Un business dai numeri impressionanti che riflettono un profondo cambiamento negli stili di vita degli italiani negli ultimi anni. Sono oltre 120mila le imprese del settore di cui il 60,5% artigiane. Quest’ultime mostrano una flessione dello 0,9% dal 2016 mentre quelle non artigiane crescono del 2,5% a conferma di norme discriminanti.

Gli artigiani hanno accettato la sfida dell’evoluzione dei consumi alimentari. E qui inizia l’autentica via crucis, provocata da una mancanza di attenzione da parte del legislatore, della macchina amministrativa centrale e periferica. Leggi, circolari, normative non hanno tenuto conto ad esempio della riduzione di tempo libero di lavoratori autonomi e dipendenti, né della necessità di contenere i costi della pausa pranzo. Il conto di questo immobilismo è altissimo per gli artigiani. Per scongiurare l’accusa di abusivismo, ad esempio, l’artigiano che sforna pizze in teglia è costretto in genere a ottenere il titolo di esercizio di vicinato, uno strumento giuridico del commercio, per il quale possono essere indispensabili fino a venti adempimenti e 140 ore di corso. Ma è solo l’inizio di un percorso impervio per l’artigiano che, molto semplicemente, vuole offrire ai propri clienti di consumare sul posto, senza servizio assistito, le bontà del suo laboratorio. C’è una giungla di divieti e prescrizioni incomprensibili: non può mettere a disposizione della clientela sedie e tavoli, ma deve ricorrere a panche, sgabelli, mensole e piani d’appoggio, così come deve fornire solo posate e bicchieri in plastica usa-e-getta. Insomma, l’artigiano è obbligato a rendere scomoda la consumazione di un pasto. Un agricoltore che vende al pubblico i propri prodotti, viceversa, può fornire ai clienti perfino posate di metallo, bicchieri di cristallo e tovaglioli di cotone. Una disparità non secondaria, sottolinea l’Osservatorio CNA sulla Burocrazia, che penalizza non solo le imprese ma anche, se non soprattutto, i loro clienti costretti ad arrampicarsi su sgabelli scomodi e pericolosi per obbligo di legge: il posto a sedere, infatti, non deve risultare di altezza compatibile con il piano di appoggio. Alle penalizzazioni della legislazione nazionale non hanno posto rimedio le regioni, competenti dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Mentre le burocrazie territoriali rincaravano la dose. Ad esempio solo il comune di Pescara non richiede ulteriori abilitazioni per la vendita di bevande da parte degli artigiani.

Per superare il perimetro angusto in cui è costretto, l’artigiano deve acquisire l’abilitazione di esercizio di vicinato, entrando giuridicamente nel settore artigiano. Un titolo che richiede fino a 20 adempimenti burocratici e corredato da un corso per il riconoscimento dell’idoneità che varia dalle 80 ore di Pistoia e Grosseto alle 140 ore nel comune di Roma.

In sei comuni italiani tra i quali Bologna e Genova, gli artigiani non possono utilizzare gli spazi esterni e dove è possibile si registra una diffusa eterogeneità in merito ai titoli richiesti.

E quando finalmente si riesce ad avviare l’attività di vendita per il consumo sul posto, l’artigiano è sottoposto ad accertamenti e controlli da parte di 21 soggetti, dal medico veterinario fino alle guardie ecologiche e alle Capitanerie di porto.

Lo studio realizzato dalla CNA non si limita a far conoscere una realtà fortemente penalizzante per gli artigiani, ma propone una serie di interventi per modernizzare il quadro normativo.

Occorre offrire una definizione di attività prevalente dell’impresa artigiana che, come nel caso dell’impresa agricola, non lasci spazio ad interpretazioni arbitrarie. Attualmente, all’impresa artigiana che opera nel settore alimentare è consentita la sola vendita dei beni propri, mentre anche per poter vedere beni altrui, connotati da accessorietà, nonché consentirne il consumo sul posto, è necessario ottenere il titolo di esercizio di vicinato.

CNA indica che il criterio di prevalenza dell’attività artigiana su quella commerciale andrebbe strutturato sulla base di oggettivi parametri temporali e quantitativi, quali il maggior tempo impiegato nella produzione e preparazione degli alimenti rispetto alla fase di vendita; il maggior ricavo derivante dalla vendita di prodotti di produzione propria rispetto alla vendita di beni accessori.

Aggiornare la legge quadro per l’artigianato, all’interno di un percorso comune con le Regioni, appare un passaggio ineludibile per dare nuovo impulso e rinvigorire una cornice normativa nazionale confinata nel limbo delle leggi inattuate.

 

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