“L’arte dell’attore io la chiamo l’artigianato dell’attore”, disse in un’intervista a Piero Angela, Gigi Proietti, il grande mattatore italiano, scomparso oggi, nel giorno del suo ottantesimo compleanno.
Per lui l’attore deve “abbassare questa sacralità del teatro, portando il tutto a un livello più umano. Più che artista, l’attore deve essere un artigiano”.
Inizia la sua formazione artistica imparando a suonare la chitarra, il piano, la fisarmonica e il contrabasso, cantando nei nightclub prima di approdare, per caso ad un corso di recitazione.
E lui, dal volto segnato da rughe e sorrisi d’espressione, maschere che si sovrappongono al suo volto, fa dell’arte comica, più di quella drammatica, la sua caratteristica, proprio come gli artigiani della commedia all’italiana.
La sua prima occasione arriva quando deve sostituire Domenico Modugno in “Alleluluja brava gente” e da allora arriveranno Petrolini, “A me gli occhi, please!”, fino ad approdare al cinema con “Febbre da cavallo” e alla tv con “Il Maresciallo Rocca”.
Un meticoloso ricercatore, un geniale uomo-teatro al pari di Eduardo De Filippo, di Carmelo Bene, di Paolo Poli, di Dario Fo, che costruiva i suoi spettacoli attorno ad un accurato lavoro che iniziava dallo studio del copione per poi procedere di pari passo con il lavoro di palcoscenico, misurando i ruoli sugli interpreti, le cui doti migliori dovevano essere valorizzate nella costruzione dei personaggi. Non a caso, i suoi ultimi anni sono stati caratterizzati dalla messa in scena del repertorio Shakespeariano e dalla direzione del Globe Theater di Roma, luogo che ha fortemente voluto e che ora è chiuso, come tutti i teatri italiani.
Se ne va così, Gigi Proietti, uno degli ultimi maestri artigiani dell’arte teatrale. A sipario calato, platea vuota, luci spente, palcoscenico deserto.