In base a quale criterio un lavoratore notturno o un autotrasportatore svolge mansione usurante se è un dipendente, e non usurante se autonomo? E ancora, in virtù di quale parametro un “operatore della cura estetica” o un “conduttore di impianti per la lavorazione dei metalli, del vetro o della ceramica” svolge compiti da ritenersi gravosi solo se la medesima attività è sviluppata in forma subordinata e non autonoma?

L’esclusione dei lavoratori autonomi dai benefici previdenziali sopra accennati appare davvero incomprensibile e ai limiti della legittimità costituzionale, anche alla luce delle attività lavorative ritenute usuranti o gravose, non di rado direttamente svolte anche dagli artigiani.

In quest’ottica devono infatti essere intese le norme attraverso le quali il legislatore ha disciplinato l’accesso anticipato al pensionamento per i lavoratori dipendenti addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (D.Lgs n. 67/2011); la possibilità di accedere allo scivolo pensionistico, il cosiddetto Ape sociale, per effetto dello svolgimento di attività “gravose”; la possibilità di avvalersi della condizione di lavoratore “precoce” ai fini del pensionamento (Legge n. 232/2016 e Legge n. 234/2021).

Nel rileggere il bel volume dal titolo “Fondata sul lavoro?” (Ediesse, 1994), dalla lunga conversazione-­intervista di Alberto Orioli a Gino Giugni emergono temi e riflessioni che, a distanza di quasi trent’anni, appaiono ancora di estrema attualità. Alle doti di analisi e di anticipazione delle dinamiche future, proprie del giuslavorista, si sommano le lentezze del nostro sistema nel porre rimedio alle criticità esistenti e, ancor di più, a quelle previste o prevedibili.

Senza pretesa di evocare compiutamente i contenuti della feconda intervista, al fine che qui interessa è sufficiente richiamare il passaggio, in quella contenuto, in cui lo studioso afferma che “il principio del «favor» (…) corrisponde ad una visione paternalistica del diritto del lavoro: tutto ha origine dal presupposto che, tra le due parti in causa, come accade nel diritto penale nei confronti del reo, debba sempre prevalere l’interpretazione a favore del lavoratore subordinato. E questo, non ho timori a dirlo, non è giusto”. Insomma, continua il giurista, “è il momento di rimettere in discussione il quadro normativo e culturale, senza però dimenticare che la nostra Repubblica è sempre fondata sul lavoro”.

Il riferimento ultimo di Giugni, con ogni evidenza, è al primo articolo della nostra Costituzione, il quale, come è noto, nel tratteggiare la forma dello Stato italiano nelle sue linee essenziali, stabilisce che l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, e che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

La formulazione per cui la Repubblica è fondata sul lavoro si deve alla approvazione di un emendamento presentata da Amintore Fanfani, preferito a quello firmato Lelio Basso-Giorgio Amendola, il quale ultimo avrebbe previsto che “l’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”. Una siffatta impostazione, oltre ad essere incoerente con le altre disposizioni della Costituzione, avrebbe caratterizzato in modo radicalmente diverso la nostra forma di Stato, e avrebbe, a rigore, richiesto una disciplina dell’organizzazione dei poteri pubblici che riservasse ai “lavoratori”, intesi in senso restrittivo, una posizione privilegiata rispetto agli altri cittadini nell’attribuzione dei diritti civili e politici.

Si è molto discusso, in dottrina, sul concetto di “lavoro” ipotizzato dall’articolo l, e, più in particolare, se esso sia riferibile allo svolgimento di “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4, comma 2, Cost.), o a quello, di più ristretta portata, di cui agli artt. 35 ss., che fanno sostanziale riferimento al lavoro dipendente.

Posto che la seconda soluzione sarebbe più coerente con l’emendamento Basso-Amendola, respinto perché relativo alla “Repubblica democratica dei lavoratori”, come è dato di leggere nella relazione di Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 (l’organismo ristretto incarico di elaborare e proporre il progetto di Costituzione repubblicana), il lavoro su cui è fondata la nostra Repubblica è comprensivo di ogni attività umana che possa concorrere al progresso morale e materiale della società, quindi del “lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana”, ivi compresa, quindi, la stessa attività imprenditoriale e il lavoro autonomo e artigiano, la cui emancipazione e il cui pieno inserimento nella vita sociale e nelle dinamiche istituzionali i costituenti intesero promuovere.

Tenendo saldi gli orientamenti sopra richiamati, pare tuttavia opportuno rilevare come, nella giurisprudenza costituzionale, il principio lavorista è stato evocato (soprattutto in decisioni meno recenti), per escludere l’illegittimità costituzionale di norme mirate a tutelare più intensamente il contraente debole o a limitare l’iniziativa economica privata (C. cost. n. 13/1977).

Va parimenti ricordato che, se la Corte costituzionale è sembrata talora attribuire al fondamento sul lavoro la forza di affermare la preminenza di tutte le attività lavorative nel sistema dei diritti e dei doveri del cittadino, essa non ha mancato di precisare che l’articolo 1 si limita a stabilire un principio ispiratore della tutela del lavoro, ma non determina modi e forme di tale tutela (C. cost. 158/1985).

E, in effetti, tali modi e forme della tutela sono determinati dal legislatore ordinario, il quale, attraverso la legge, disciplina gli interessi ritenuti meritevoli di tutela dalla maggioranza di governo.

Insomma, se è vero che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sui lavoratori, e che il lavoro su cui essa si fonda è il lavoro di tutti, ancor più vero deve essere che lo svolgimento di identiche attività lavorative non si deve tradurre in differenti e discriminanti possibilità di pensionamento.

Partendo da questo assunto, si potrà più agevolmente riflettere seriamente sulla individuazione di strumenti alternativi ai pensionamenti anticipati, ai quali ancora troppo spesso si ricorre come facile rimedio alle diverse criticità esistenti.

 

Antonio Licchetta